Il banchetto per la nera signora: il pranzo della domenica di Dammacco|Balivo

Si può sfidare la morte come ha fatto Ingmar Bergman nel “Settimo sigillo“? Sì perché anche se la sconfitta è certa, la partita in qualche modo è aperta. L’importante è non trasformarla, come facciamo abitualmente, in un tabù, in un monolite da cui scappare in un girotondo che si chiuderà inesorabilmente con la caduta. La compagnia Dammacco Balivo sfida la mietitrice con uno spettacolo morbido e duro allo stesso tempo, lieve e pesantissimo.

La morte, ovvero il pranzo della domenica, visto all’Elfo e in tournée nazionale, è un monologo scritto da Mariano Dammacco e interpretato magistralmente da Serena Balivo, da sola in scena tranne un tavolo sironiano con sopra delle caramelle, una bottiglia vuota e bicchieri, e il burattino di uno scheletro, diventato un “oggetto transazionale” (summa della lezione psicologica di Eric Berne). La narrazione è scandita da un gioco di light design che colorano la protagonista in base agli stati d’animo, ora blu elettrico, poi viola, poi una colata di neon bianco e così via.

La narrazione è esile, frammentaria, il resoconto immaginario di una figlia agée e alquanto stramba (un personaggio ai margini di sapore felliniano, ma volendo anche un idiot savant anche se il QI del personaggio è ben più alto), del pranzo domenicale con i genitori novantenni. Lo schema è semplice, lineare: la figlia stramba descrive fenomenologicamente e buffonescamente tutta la giornata: dall’arrivo e dal parcheggio dell’auto al caffè, passando per il primo, il secondo e le patatine, “una montagna di patatine fritte, che come le fa la mamma non le fa nessuno”. In mezzo ma dappertutto, c’è la morte. I genitori non parlano d’altro, e la figlia racconta la loro vita attraverso l’ossessione per la morte. Da novantenni aspettano l’ultimo appuntamento. Il suo unico interlocutore è lo scheletrino transazionale, che viene sfidato, carezzato, gingillato, percosso, fatto cadere e sbeffeggiato.

Il padre, preciso e maniacale catalogatore, è incapace di esprimere direttamente le emozioni. La madre, al contrario, è emotiva e pensierosa, un’ottima cuoca ma non dorme, ha paura dell’arrivo del momento fatale. I piani si sovrappongono, Dammacco mischia con grazia polpette e ansia, angoscia e faticosa accettazione della fine, che per tutti, al di là del paradiso a cui non crede quasi più nessuno, è un salto nel nulla che fa paura ma la paura, se affrontata, aiuta a vivere meglio. Ma pensare che possano esistere i cancelli del cielo e il Paradiso, anche per noi laici senza speranze, racconta la buffona, non è poi un gran peccato e può capitare di andarsene con questo sogno una volta arrivati al momento.

E allora si ride spesso, perché la figlia buffona rende amabili e simpatici i due vecchietti, spaventati “dall’aria della falciata in arrivo”. L’amore che resta, al di là della cura dell’altro, è la speranza di andar via insieme: la tenerezza assoluta. Ci sono Bergman e Tolstoj  in questo complesso manifesto di semplicità che scatena un’emozione bipolare, gioiosa e triste, ma anche la lezione della psicoanalisi (lacaniana?). E Fellini e Grotowski (e molti altri ancora): un immaginario ricco per infrangere il tabù del silenzio sulla morte e per invitare a vivere in maniera più autentica la vita. E poi della morte si può anche (sor)ridere, un po’ come hanno fatto i Gordi nell’ultimo, diversamente (ma non troppo) spettacolo “Note a margine” (ma tutta la loro poetica ruota intorno alla dipartita e alla fragilità).

La sfida di Dammacco|Balivo – già acclamati dalla critica vincitori tra gli altri premi di due Ubu: nel 2017 a Serena Balivo come miglior attrice under 35 e nel 2021 a Mariano Dammacco per il migliore testo italiano  – è giocare una partita con la morte per riproporre il tema del corpo “reale” e dell’identità “vera” immersi nel tempo e (anche contro), in un mondo al contrario sempre più fake, che elimina artificialmente il rapporto con la clessidra creando legioni di Frankenstein senza identità, sordi e ciechi alle leggi della temporalità. I riccioli grigi della protagonista e la sua allure sghemba ma unica sono quindi un atto liberatorio e di rottura, che rilancia la missione del teatro di ricerca, di esprimere le contraddizioni dell’animo umano: le sue fragilità ma anche le piccole bellezze, con un linguaggio che parte da visioni forti, sentimenti profondi e da maestri importanti.

La morte ovvero il pranzo della domenica

Compagnia Diaghilev – Dammacco/Balivo

ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco

con Serena Balivo

musiche originali Marcello Gori

consulenza spazio e luci Vincent Longuemare

produzione Compagnia Diaghilev

con il sostegno di Spazio Franco (Palermo), Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno)

Fino al 2 febbraio all’Elfo di Milano.