Emanuele Aldrovandi, autore e regista de “L’estinzione della razza umana” visto al Franco Parenti, è abituato a misurarsi con la faccia sporca della nostra contemporaneità, vedi le non poche pièce precedenti dedicate a problemi come migranti, famiglie malate, solitudini, ecc. Qui si confronta con la pandemia, tema scivoloso politicamente e artisticamente e che socialmente ha relegato buona parte dell’umanità in uno stato di emergenza senza fine con lunghi periodi di reclusione nella propria abitazione. Mentre, a distanza di poco più di due anni dalla fine dell’ultimo confino, stiamo ancora provando a capire i danni che questo status emergenziale con l’interruzione di molte attività economiche ha comportato per noi – famiglie, imprenditori, lavoratori –, Aldrovandi ha bruciato sul tempo i colleghi e già durante il confino ha scritto una pièce dedicata all’assurdo quotidiano di quel periodo.
Rieccoci in quei giorni, quindi, in un tetro condominio-galera in cui le vite di due coppie si scontrano per le condizioni di reclusione imposte da uno strano virus che trasforma le persone in simil-tacchini. Eh sì, umanoidi con penne e becco, con difficoltà respiratorie che provocano anche la morte. Una scelta interessante di arpionare esteticamente il virus ma che, a ben vedere non verrà sviluppata a dovere nel resto della pièce. In questo clima di terrore, uno dei quattro, un pubblicitario, vuole andare a correre violando l’ultimo decreto che impone il confino domestico. L’uomo vuole respirare un po’ d’aria fresca e sgranchirsi le gambe, ormai “radici di un albero”.
Per sua sfortuna incontra nell’androne del palazzo, reso nella scenografia come una prigione, con pareti-inferriate come una gigantesca gabbia comunitaria, il marito di un’altra condomina, un geometra impaurito e ossessionato al contrario dal virus, e deciso a impedirgli di violare il decreto e a gustarsi quella mezzora di libertà. Tra continue consegne di acquisti online (anche questo retaggio della pandemia) da sterilizzare maniacalmente e goffi tentativi di spiegarsi a vicenda, l’irruzione delle rispettive compagne scatena il patatrac: una è un’attivista green e pro tempore cantante da balcone ma soprattutto disperata al punto di sognare l’estinzione dell’uomo; l’altra è un’ostetrica ultrareligiosa che ha appena avuto una bambina. Inevitabile lo scontro, che coinvolgerà anche i mariti fino al finale.
La pièce si sviluppa in una sola scena e in un unico tempo/azione. Tutto ruota intorno al fatto di violare o meno un decreto che riguarda l’ordine pubblico e questo pone allo spettatore una scelta. Identificarsi col pubblicitario libero pensatore, individualista e un po’ stronzo, oppure col geometra-pecora ingabbiato nei suoi schemi mentali e nelle sue fobie. E dall’altra parte, con la lotta disperata dell’attivista un po’ isterica o con la gioia fanatica (e quindi sospetta) dell’ostetrica zelota. Insomma, un’umanità smarrita e desolante.
Aldrovandi articola il doppio dilemma con i consueti dialoghi ben congegnati e situazioni assurdamente comiche. In questo clima surreale, ma che in fondo è proprio quello che abbiamo vissuto solo due-tre anni fa, riviviamo la violenza con cui il virus e la risposta dello Stato, hanno deviato per sempre il corso delle nostre vite, come una colata lavica. Irrimediabilmente? Forse perché ha intinto l’inchiostro durante la pandemia, l’autore, che firma pure una regia pulita ma senza colpi di scena, si incarta nei gorghi dialogici conflittuali, che occupano tutta la seconda parte dello spettacolo, con fiumane di paroloni e urla, alla fine stringhe e fasce dei guantoni per un incontro di boxe tra perdenti, portato troppo in là dai pur bravi attori. “L’estinzione della razza umana” si dimostra nel complesso una pièce acuta scritta da un autore bravo ma che qui non sembra aver guadagnato la necessaria distanza per operare una sintesi più appuntita del materiale, fondamentale per scelte di regia e esodi drammaturgici più puliti e incisivi.
“Dopo il silenzio” (Depois do silêncio) è l’ultimo lavoro della “Trilogia degli Orrori” di Christiane Jatahy, drammaturga e regista brasiliana associata al Piccolo Teatro e apprezzata in Italia anche in virtù del Leone d’Oro alla carriera all’ultima Biennale veneziana. L’abbiamo visto in scena al Piccolo Teatro Studio Melato, palcoscenico ampio e profondo, adeguato ai topoi teatrali dell’autrice. Sì perché il lavoro di Jatahy consiste nel trapiantare – grazie a una tecnica che prevede un impasto originale di mixed media: video, musica e recitazione – sulla scena l’altrove della lacerata contemporaneità brasiliana. Un’operazione iperrealista per condensare e amplificare in una storia una situazione di grande sofferenza umana e civile.
Un altrove diverso da quello che comunemente si sa del Brasile, che deve far capire allo spettatore occidentale che in quel sterminato paese il popolo è assediato. Già ma quale popolo e da chi o cosa? Non quello di Bolsonaro, presidente uscente, bersaglio esplicito della pièce. Non i bianchi e ricchi latifondisti locali che da sempre detengono le leve dell’economia e del potere. Ma gli indios e i neri, gli eredi degli schiavi (4 milioni ne arrivarono in Brasile dall’Africa, ricordano i narratori) che lo sono ancora de facto per la miseria e lo sfruttamento patiti.
In un palco spoglio, con solo un paio di scrivanie che alludono a cattedre per questa lezione teatrale di anticolonialismo, dietro ai quattro attori si staglia un grande schermo diviso in tre parti che occupa il fondale della scena. I 4 interpreti, 3 donne e un uomo (Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes), dopo il prologo drammatico commentano e raccontano le scene del docufilm proiettato alle loro spalle, con al centro membri delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile: uomini e donne che ricordano i “villani” di Nuto Revellinel primo dopoguerra. La vicenda prende forma dal romanzo Torto Arado (Aratro ritorto) di Itamar Vieira Junior – che narra le battaglie di tre donne nello stato di Bahia –, e dal documentario di Eduardo Coutinho, Cabra marcado para morrer (Un uomo segnato dalla morte), dedicato all’omicidio del leader di un sindacato rurale.
Il video panoramico ha un effetto quasi immersivo, forse per aumentare nello spettatore l’urgenza di una scelta di campo. Solidarizzare con la storia insanguinata e reale qui narrata o respingerla, tertium non datur. È il salto della tigre a cui allude Walter Benjamin in una delle sue Tesi di filosofia della storia, in cui avverte come non esista una storia oggettiva ma solo quella, conflittuale, di oppressori e oppressi. Spiando i volti dei presenti in sala si ha l’impressione che buona parte del pubblico sia alle prese proprio con un conflitto interiore, e qui torniamo alla questione del popolo. I poveri contadini sfruttati di Diamantina (e i milioni di loro compaesani nel resto del Brasile, ma potremmo scrivere dell’America Latina in blocco e non cambierebbe molto) nulla hanno a che fare con la distrattiva querelle intorno al “popolo italiano”, popolo (ma esiste ancora? È mai esistito?) che, al fondo, nel complesso non può certo dire di vivere una situazione paragonabile a quella vissuta dalla gente di Diamantina.
La battaglia di Jatahy è quindi doppia: dare voce, resistenza e memoria alla storia passata e presente delle comunità indigene (Yanomami e altre) e nere brutalizzate dal potere, e risvegliare nello spettatore la scintilla della consapevolezza: “Ehi turista, ecco il deep country, il paese profondo, che soffre mentre tu ti fai i selfie sulle spiagge!”. Tutti noi, bianchi urbani e acculturati di ogni paese, ci scopriamo sgradevolmente dalla parte degli eredi e continuatori del colonialismo. È lo scotto da pagare allo spettacolo, che tratta da complice chiunque accetti il sistema e ne faccia parte, anche maldestramente, rispetto a ai reietti di Bahia, gente da espellere anche fisicamente dalla società.
La nostra colpa è di sorvolare sul silenzio degli oppressori non parlando di quella che, in altri contesti, è stata chiamata una “politica genocidaria” verso il popolo brasiliano. Il silenzio sanguinoso degli indios è invece quello della loro lingua strappata dalla violenza neocolonialista, che reprime da sempre ogni tratto identitario nativo. L’aspetto fisico, la cultura, la musica, le parole… tutto è brutalmente estirpato dai pronipoti dei conquistadores europei. Al tempo, i primi a instaurare il cristianesimo come religione unica soffocando il panteismo naturale dei nativi. E i cui eredi, oggi, impongono una pan-globalizzazione – estetica, religiosa, economica, sociale: in breve, politica – ai danni dei loro pronipoti.
Questo silenzio drammatico, di stasi, è rotto dalla rabbia, cantata e urlata dai 4 interpreti, per interrompere la dolente rassegnazione dei contadini, chiamati a destarsi e a ritrovarsi uniti nella memoria degli uccisi in nome della lotta per non farsi scacciare dalle terre e per mantenere la cultura degli antenati. Lo spettatore non vorrebbe essere nei panni dei vinti ma non può non avvertire che la “loro” umanità derelitta sprigiona una grazia che noi occidentali forse abbiamo smarrito per sempre. Jatahy sembra esplorare in scena la poetica di Terrence Malick, abile nel saper colorare il mondo con lo sguardo dei ragazzi e degli indios in due suoi film recenti (The Tree of Life e The New World): creature innocenti prima (o nel mentre) di perdere l’innocenza.
Ed ecco l’epifania dello spettacolo: far sentire noi i veri sconfitti, rimpiccioliti dal nostro sguardo afflitto di gente che vive in un mondo sempre più ostile e invivibile senza uno straccio di forza e visione per cambiarlo. La comunità derelitta e forzatamente anti-tecnologica dei contadini appare paradossalmente più in salute e integra della nostra, imprigionata nel gorgo solipsista hi-tech. Cucina comunitaria, musicoterapia sciamanica (il Jaré), amore per la natura e la vita e cura reciproca, trionfano contro moltitudini-solitudini governate da device gerarchizzanti e da riti edonistici fini a se stessi.
Questo (e molto altro) è Depois do silêncio, opera che prova a spiegare che c’è comunità solo se a fondarla è una lotta condivisa. La politica torna al centro perché agli indios e ai neri interessa vivere liberi e sovrani, contro uno stato che li minaccia e uccide (come i due attivisti da cui parte lo spettacolo, assassinati dai sicari padronali).
La miscela docufinzionale di Jatahy viene fatta detonare in scena dai quattro narratori, che mischiando alla storia le loro vicende personali, vere o inventate poco importa, scardinano le nostre difese. Il viso pallido (nomignolo ottocentesco degli indiani nordamericani per i bianchi) non può non avvertire di essere lui quello privo di una comunità funzionale, di non avere un progetto difendibile, una cultura forte e una lingua vivente. Il viso e cuore pallido ha accettato che la modernità cancellasse ogni tratto identitario e autentico di sé e dei popoli sottomessi. Depois do silêncio ci scuote ricordandoci che la lotta non è finita e non finirà mai, “anche a costo di dover uccidere”. Finché la terra non sarà restituita e giustizia fatta. La nuova utopia è dolore, carne, lotta, parole e musica. E uno strano sentore di disperata felicità. E anche lo spettatore-indio ha la sua possibilità di riscatto e rinascita, a patto che rompa il silenzio diventando membro solidale delle ultime comunità native del globo.
Depois do silêncio (Dopo il silenzio)
di Christiane Jatahy
dal romanzo Torto Arado di Itamar Vieira Junior, pubblicato da LeYa
ideazione, regia e testo: Christiane Jatahy
con Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes e, per il film, la partecipazione di Lian Gaia e dei residenti delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile.
Collaborazione artistica, scene e luci: Thomas Walgrave
foto e video: Pedro Faerstein
musica originale: Vitor Araujo e Aduni Guedes
sound design e mixing: Pedro Vituri
suono (film): Joao Zula
montaggio (film): Mari Becker e Paulo Camacho
costumi Preta Marques
collaborazione al testo Gal Pereira, Juliana França, Lian Gaia e Tatiana Salem Levy
interlocuzione Ana Maria Gonçalves
sistema video Julio Parente
preparazione fisica Dani Lima
assistente alla regia Caju Bezerra
direttore di scena e del suono Diogo Magalhaes
assistente alle luci Leandro Barreto
direttore video Alan de Souza
tour manager Claudia Marques
amministrazione Claudia Petagna
direttore di produzione e distribuzione Henrique Mariano
sono presenti riferimenti e immagini da Cabra marcado para morrer di Eduardo Coutinho, produzione Mapa Filmes
produzione Cia Vertice – Axis productions
coproduzione Schauspielhaus Zürich, CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe – Parigi, Wiener Festwochen, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, ArtsEmerson – Boston, Riksteatern – Svezia, Théâtre Dijon-Bourgogne CDN, Théâtre National Wallonie- Bruxelles, Théâtre Populaire Romand – Centre neuchâtelois des arts vivants La Chaux-de-fonds, DeSingel – Anversa, Künstlerhaus Mousonturm – Francoforte, Temporada Alta – Festival de tardor de Catalunya, Centro Dramático Nacional – Madrid
Christiane Jatahy è artista associata a CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe, Schauspielhaus Zürich, ArtsEmerson Boston e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Cia Vertice è supportato dalla Direction régionale des affaires culturelles Île-de-France – Ministère de la Culture France
Tour realizzato con il sostegno di CENTQUATRE on the road
È impossibile affrontare in modo lineare “Anatomia di un suicidio”, ultima opera del collettivo lacasadiargilla che ha appena debuttato in prima nazionale al Teatro Grassi, dove sarà in scena fino al 19 marzo.
A partire dal testo di Alice Birch, astro nascente della drammaturgia anglosassone, lo spettatore (e il critico) sono chiamati a una danza marziale (tipo capoeira) col corpo dello spettacolo, che è multiprospettico e scandaglia fenomenologicamente la vita dei personaggi.
Il prisma più importante è quello politico, come dichiarato dalla coregista, Lisa Ferlazzo Natoli: qui si fa “teatro politico” (tema già affrontato nel pluripremiato “When the Rain Stops Falling” di Andrew Bovell), ovvero un teatro critico che riflette, anche duramente, sulla deriva nichilista della società, della famiglia e degli individui. Il termine nichilismo a dire il vero non affiora, ma per noi è il chiaro sottostante dello spettacolo, il filo con l’amo che lega la vicenda.
La battaglia con(tro) il nichilismo – arcinoto freudianamente come “pulsione di morte” – è quella che combattono i 12 interpreti di “Anatomia”, a partire dai moti, dalle scelte di Carol, Anna, Bonnie. Carol prova quietamente a resistere al soave richiamo del nulla, ma la sua è una caduta progressiva nel maelstrom ritardata solo dalla nascita di Anna.
Questa affronta la tentazione del vuoto in maniera molto più dura e selvaggia, dionisiaca, anche con la droga. Cerca però furiosamente una via di salvezza e si lascia in qualche modo convincere che il matrimonio e la maternità siano l’esito salvifico del conflitto. Bonnie invece decide radicalmente per un suicidio sui generis, decidendo di interrompere la linea generativa femminile.
Ecco che si intravvede meglio il cuore della battaglia politica contro il nichilismo che infesta le nostre vite. Una lotta affinché il femminile venga riconosciuto e ammesso come qualcosa di più che il mettere materialmente al mondo i figli, sganciato dal bios muliebre, se possibile. È importante capire che per gli autori il femminile, come ogni vera potenza collettiva cosmogonica, nella sua essenza è misterioso e sfuggente, e soprattutto non è pertinenza di alcun genere.
Cangiante è quindi la casa (archetipo femminile) in cui si svolge la vicenda, sulle cui pareti sembrano scorrere gli stati d’animo (la psiche) dei protagonisti: sui muri che diventano proiezioni liquide, che influiscono costitutivamente sulla messa in scena, con i suoni e le musiche, cover e brani rock distorti. Un lavoro di squadra ben orchestrato per un habitat di scena dinamico e potente.
Le vicende di CarolAnneBonnie scorrono in simultanea sul palco e si intersecano a volte in maniera fantasmatica accompagnando lo scorrere degli anni, una trovata interessante che racconta come la vita dell’individuo sia infestata e spesso lacerata dalle “presenze” (pensate a Georg Steiner) buone e soprattutto cattive, e dagli spiriti del passato. Sembra non succedere molto, ma l’evento è la dialettica stessa, la scena e la parola, un campo in cui gli autori sanno che qui si gioca molto se non tutto della riuscita del lavoro.
All’inizio serve tempo per entrare nei giochi linguistici della pièce, che ci invita a una danza guerresca. Tre porte in scena e tre scene in contemporanea, con echi e intersezioni che aprono a sviluppi molteplici, al lavorio dei possibili.
E se non è una questione di genere la lotta è quindi anche degli uomini, che nella pièce però non sembrano intendere a fondo la posta in gioco, ovvero la chiamata del femminile: la avvertono ma non hanno la forza di reggere.
Il marito di Carol lotta per tenerla in vita facendola generare ma non può capire, si ferma al bios e a un amore sarcastico e disperato. Il compagno di Anna sembra più attrezzato ma non riesce a proporre altro che una casa e una figlia, radici, ma questo non impedirà agli elettrodi di irrompere sul corpo dell’amata.
È Bonnie a recidere il figlio generativo, e la sua omosessualità appare un atto di ribellione politico perché non orientata a un legame, ma solo a viverlo nella sua impossibilità, nell’istante. Approdo fatale al nulla illudendosi di sfuggirgli?
Riportiamo il tutto alla società e vedremo che la complessità di “Anatomia di un suicidio” sfida l’appiattimento attuale delle relazioni e del linguaggio, questiona lo sterile bavardage in cui perdiamo ogni riferimento al senso e implicitamente mette al bando una “prassi” politica ormai incancrenita e alleata giocoforza del nihil. Benché non esplicitamente tirata in ballo, la società vetero-maschilista è l’impero del nulla contro cui si scaglia la ribellione creatrice del femminile, in cerca di un nuovo senso.
Ribellione generatrice e anche sabba scespiriano, culmina con l’unico atto possibile, ovvero la rinascita orfica dei 12 apocrifi apostoli in scena, che si coagulano senza più un dio umano e maschio, e al contempo orfani delle tre divinità femminili smembrate, come elementi primari di un sangue che non è ancora tale.
Sono tutti protagonisti ci dice il finale della pièce, che nonostante momenti in cui la sfida della complessità sembra conficcarsi nella mano degli autori come un amo uncinato, sprigiona una forza gentile che disorienta e percuote, anche grazie al lavoro degli attori che si cercano evitandosi mentre risuona Disorder dei Joy Division.
Il disordine è così il nostro status (destino) aurorale, da affrontare possibilmente senza che l’individuo perisca insieme alla società agonizzante.
Anatomia di un suicidio
di Alice Birch
Una nuova produzione Piccolo Teatro di Milano
Progetto di lacasadargilla
con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
In scena: Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Francesco Villano e con Anita Leon Franceschi.
Scene: Marco Rossi, costumi: Anna Missaglia, disegno luci: Luigi Biondi, paesaggi musicali: Alessandro Ferroni, sound design: Pasquale Citera; cura degli ambienti video: Maddalena Parise, drammaturgia del movimento: Marta Ciappina
Cosa resta della lezione di Italo Calvino nel 2023, a cent’anni dalla nascita? È la domanda implicita che Riccardo Frati, emergente regista che firma “Il barone rampante”, nuova produzione Piccolo Teatro di Milano, in scena al Teatro Grassi fino al 5 febbraio, suscita col suo nuovo lavoro.
Partiamo però da quelle esplicite, affrontate nell’adattamento e nella regia di un suo romanzo straordinario, un ircocervo per la sua incollocabilità, nè solo per ragazzi tanto meno per adulti: per sognatori grandi e piccini, per farla breve.
Dice Frati che si è rifatto al saggio forse più noto dello scrittore ligure, quelle “Lezioni americane” a cui molti si sono ispirati. La leggerezza in primis, e l’esattezza in secondo luogo. Leggerezza per staccarsi da terra, esattezza per non volare via.
Il Barone è uno di quei libri che segnano per sempre, soprattutto se siamo (stati?) sognatori e a maggior ragione se lo si è letto in quell’età in cui è cosa buona e giusta confondere sogni e realtà. Forte di queste premesse, Frati si colloca a pieno titolo nella categoria, restandone folgorato in età più che verde (come lo scrivente per altro, e se avete dato un’occhiata a questo sito capirete che non è uno scherzo).
Il teatro, ci dice e dimostra Frati, è il luogo dei possibili. Quello in cui i sogni emergono e vengono soppesati con il bilancino instabile della messa in scena, tra l’eruzione della fantasia e la colata, fredda, dell’intelletto. Cosimo Piovasco di Rondò è quindi perfetto per diventare un’imbattibile matrice del sognatore di ogni tempo.
Un ragazzo che rinuncia ai privilegi della vita nobiliare terrena, per vivere appollaiato sugli alberi diventando una sorta di agrimensore democratico delle proprie terre e di quelle di tutta Ombrosa, luogo metaforico di un passato in cui la natura era sì in pericolo ma ancora vivente e dotata di anima. Un governatore sensibile e illuminato, senza portafoglio.
La scena pensata da Frati e realizzata dalla scenografa Guia Buzzi, così come i costumi e le luci (rispettivamente di Gianluca Sbicca e di Luigi Biondo) punta sul fiabesco, ancorando la storia al Settecento ma con ariosità, per sgusciare e reinterpretare a piacimento toni e sfumature dell’epoca dei Lumi, che diventa “epoca di Mozart“.
La musica, o meglio la composizione musicale e il sound design, come si dice, curati da Davide Fasulo concorrono a questa reinvenzione dei Lumi, visti quindi come secolo in cui immaginazione, scienza e poesia avevano ancora un qualche contatto, in uno spirito pre-olistico e post-cartesiano.
Tecnologia e ispirazione felice in alcune scene-madre, come la battaglia coi pirati, il funerale del padre, il bacio tra Cosimo e la Sinforosa: il tutto grazie alla scenografia minimalista ma tecnologica, con gli alberi-nuvole in dinamismo perpetuo, accesi dal grande schermo cangiante che rende lo sfondo una parte attiva e importante dello spettacolo.
Non interessa troppo che si provi a dire che oggi Cosimo è un eroe ecologista ante litteram, cosa per altro non fuori luogo. Il protagonista che scappa sugli alberi per capire meglio gli uomini, è un sognatore applicato: ha a cuore la sua proprietà, la sua foresta, la sua dimensione come ogni cittadino nobile, privilegiato, ma poco interessato ai titoli quanto agli alberi, agli animali, alle persone, all’amore. È un “filosofo terriero”, un genius loci incarnato, di quelli che studiano il creato e dedito a giustificare il privilegio feudale dedicando tutta la vita alla cura del luogo.
Un eroe dei Lumi ma romantico? Probabilmente. E nel cast che aiuta con recitazione ironica a non prendere alla lettera, ovvero con pesantezza, la vicenda, forse avrebbe giovato un Cosimo meno scolastico e più autorevole nella recitazione, ma queste sono scelte insondabili di un regista – e osservazioni più leggibili di un critico.
A conti fatti, “Il barone rampante” è un macchinario teatrale tanto complicato quanto riuscito. Frati dimostra un notevole savoir faire nel combinare insieme un certo gusto contemporaneo (montaggio e ambientazione a tono) a un Settecento poeticamente poliedrico, post-moderno ma ancora incantato.
Ed ecco che torniamo alla domanda iniziale. Cosa resta della letteratura e del pensiero di Calvino? Ovviamente non c’è una risposta univoca. Restiamo all’ossimoro dichiarato da Frati, “la profondità va nascosta”, e all’ircocervo: una categoria estetica vale solo se è poetica, non scientifica.
Calvino e il suo eroe (prediletto?), il dodicenne Cosimo, sono quindi attuali perché la ribellione del cuore e della giovinezza è accompagnata dalla buona volontà e dall’amore per il creato e le creature, categoria molto più ampia della sola società. È una ribellione à rebours in qualche modo francescana (ma senza riferimenti espliciti), anche verso l’Egolatria dei giorni nostri, quella che illude che ognuno possa essere meglio se va CONTRO gli altri per impalpabili, se non proprio sciocche, ragioni.
Per Cosimo-Calvino, invece, la vita è un serissimogioco ma pur (e per) sempre gioco, per sognatori-costruttori. Da affrontare con cuore infante, mani da taglialegna e e testa adulta, con la consapevolezza incrollabile che gli “Altri”, il mondo, sono compagni di viaggio e non ostacoli da abbattere come elci diventati scomodi.
Diventare dei Cosimo per una sera è vivere una magia, la stessa magia che avevamo provato vedendo il sublime “Romanzo d’infanzia” di Abbondanza|Bertoni, per esempio, opera cosmogonia sull’infanzia di qualche anno fa. Allora come oggi, serve quella magia dell’infanzia e della giovinezza in cui sognare non ha un prezzo, al limite si versano lacrime per la disillusione. E sognare e piangere sono linfa eterna della vita e anche della crescita dell’uomo.
In tempi di guerra, blocchi e nazionalismi ultrapompati, provo a dire perché il lavoro di Sergio Blanco (appena visto al Piccolo Teatro Grassi in “El bramido de Dusseldorf” e ieri e oggi in https://www.piccoloteatro.org/…/cuando-pases-sobre-mi… al festival Presente Indicativo del Piccolo Teatro Milano), è importante. Le ultime mutazioni dell’epoca postmoderna hanno contribuito a produrre il politically correct, una bestiaccia che, per chi fa cultura, è difficile da gestire, potenzialmente annichilente di ogni differenza e contrasto, azione di spegnimento dell’aggressione perpetrata in nome della diversità (in estremissima sintesi).
La macchina scenica di Sergio Blanco dimostra invece che il postmoderno ha avuto una mutazione (virologica) che disturba la variante dominante. Non è l’unica, in Italia anche Deflorian/Tagliarini negli anni hanno investigato il problema dell’identità con un linguaggio e una prospettiva diversa ma astutamente travestita di pseudodebolezza.
L’assunto e domanda di fondo è sempre lo stesso: chi sono io se non esiste realmente l’identità?
Stiamo su questa domanda, “abitiamola” come si diceva in filosofia un tempo, correndo il rischio di camminare su un crinale scivoloso. Sergio sta vivendo da sempre su questo crinale e nella domanda ci abita come se fosse il suo 2 pièces parigino, sua terra di atterraggio europea. Non è più uruguaiano e non è solo francese. È un po’ sudamericano ma anche europeo.
È omosessuale ma la sessualità la indaga non solo dall’angolo ristretto dei suoi desideri, ma dal lato pulsionale: è quasi una “ur-sessualità” su cui tornerò, perché è profonda e radicata nella finitudine della vita umana. Sergio ha inventato un pastiche teatrale, altra abitazione questa volta scenica, per accogliere le sue drammaturgie sull’identità, inglobate nell’etichetta dell’AUTOFICCION. In ogni pièce racconta sempre e solo di se ma mischiando verità a finzione, senza che sia possibile riconoscerlo.
Le sue autostorie sono a un tempo vere e false, e su questo crinale porta al guinzaglio lo spettatore, come in cordata. Sono sempre degli autoscontri, e il ring è proprio quello di una giostra in cui i personaggi sbattono continuamente contro i bordi e contro le altre macchinine. Sergio mischia abilmente alto e basso per rendere più polposa questa domanda sull’identità. Canzoni pop e commerciali con Bach e Handel; cagate della tv mischiate a incursioni in nicchie in cui l’arte moderna e religiosa esplode come altro terreno di confronto. Con Shakespeare e la Shoah.
E la tragedia greca. Ma la vera bestia con cui si confronta Sergio è la violenza della storia e dell’umanità. Che ha una radice metafisica nella violenza dell’esistere (el bramido dei cervi, furioso schizzo di sessualità che porta la vita ma anche la battaglia, la morte…) Cosa sono i generi, se non separazione violenta di comodo?
Cosa sono le nazioni se non violenti accorpamenti collettivi di identità subdolamente esclusive?
Il teatro di e per Sergio è un unico dispositivo (il famoso farmaco grecoantico) catartico, in cui abbandonarsi per 90 minuti all’assenza di riferimenti precisi sul sè.
Si galleggia nel nulla identitario, a volte carezzato dal sogno di vedere una composizione finale, altre dalla lacerazione dell’assenza. Senza stare male, anzi stando bene, e ridendo pur nell’atrocità di alcune scene e temi. L’identità di Edipo è maledetta, così come quella del principe di Danimarca.
Sergio Blanco ci dimostra che l’unico modo di vivere la inevitabile impossibilità della ricerca identitaria è quella dell’arte tragica (e comica).
Gli artisti sono i più grandi rivoltosi e potenzialmente i più grandi dittatori.
El bramido e la tomba vengono osati nella rivolta tragicomica dell’artista teatrante che ha accettato, più o meno, di far parte di un’umanità “maledetta” ab origine.
Condannata dalla sua ricerca impossibile di un’identità certa, esclusiva. Nessuna identità è possibile, nessuna stazione di arrivo, tranne la morte, che libera e terrorizza allo stesso tempo.
La Sessualità è freudiana e contradditoria, schizzo di vita e morte. Eros e Thanatos. Non c’è rimedio.
E quindi nessuna nazione esiste al fondo, come nessuna guerra esisterebbe senza la muta feroce di cani identitari.
E la proprietà un sogno, solo un ricovero caruccio per la notte.
Perché siamo infinitamente deboli e sorprendentemente forti, a volte.
Issato sulla plancia immaginaria del Pequod, la celebre nave baleniera del romanzo di Hermann Melville, il novello capitano Achab, Elio De Capitani, smania per andare in scena con l’ultima creazione, “Moby Dick alla prova” di Orson Welles (di cui è regista e principale interprete), che avrebbe dovuto debuttare proprio oggi, 7 gennaio. Raggiungiamo al telefono il cofondatore dell’Elfo immerso, nonostante il mancato debutto e la pandemia, in un’euforia creativa scaturita dalle soluzioni originali pensate per realizzare questo denso plot teatrale, che nel mito della Balena Bianca inserisce frammenti del “Re Lear” di Shakespeare.
QUI LEGGI L’INTERVISTA DI MICHELE WEISS A ELIO DE CAPITANI PER LA STAMPA
Lo spettacolo, scritto, diretto e interpretato dall’attore si basa sul volume filologicamente aggiornato nel 2019 del carteggio dell’allora presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dalle Brdi Michele Weiss
A distanza di oltre 40 anni fa ancora male rivivere la vicenda Moro? Dopo che, come dice Fabrizio Gifuni – introducendo la prima milanese di Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro – “sulla vicenda sono stati versati fiumi d’inchiostro e realizzate opere e film importanti”?
Negli ultimi anni, Gifuni si è specializzato nella costruzione in veste di factotum (scrittore, interprete e regista) di “oggetti” teatrali irrituali, quasi sempre monologhi ispirati a lembi di vite e opere di grandi scrittori, come Gadda e Pasolini. Non fa eccezione l’ultimo nato, da lui stesso identificato come un “meteorite”, un esperimento teatrale “fantasmatico” da maneggiare con cura…
Per quanto vitali, le aziende, piccole o grandi, non sono solo dati e fatturati. O meglio, a produrre e governare dati e fatturati sono delle persone, professionisti che mettono tutta la loro esperienza e la loro intelligenza, arricchiti da una volontà tenace, per rendere quei numeri ogni anno migliori, vincenti. L’insieme dei numeri e delle risorse umane che li hanno prodotti forma quindi il valore complessivo di ogni azienda, senza se e senza ma. Ma dati e persone non sono solo “freddi” numeri e mansioni tabellari. Cosa sono le persone se non delle storie da raccontare?
Chiunque abbia contribuito al successo della sua azienda ha sempre qualcosa da dire al riguardo. E queste storie sono la vera ricchezza, l’oro invisibile che manda avanti le organizzazioni, nessuna eslcusa, perché senza narrazione non c’è memoria, e senza memoria non c’è futuro nè umanità. Nessuno lavora solo per soldi o solo per fare carriera, non è la verità. Il lavoro è molto di più. È vita che coltiva se stessa attraverso un fine, alto o basso poco importa. Il lavoro è la vita dei lavoratori, a volte bella, altre meno. Ma sempre un valore.
E per riuscire a scovare questo metallo immateriale, anomalo e prezioso sta nascendo una figura professionale speciale, il brand reporter, o meglio, il cacciatore di storie. A lui il compito di trovarle e di restituirle in una veste efficace e sintetica. Come un pittore che individua e dipinge anche gli aspetti meno evidenti, il brand reporter crea un racconto di un’organizzazione a partire dalle sue storie. La comunicazione oggi, in un’era in cui si insegue solo il sensazionale per distinguersi invano dalla massa dei concorrenti, ha bisogno più che mai di una narrazione nuova, capace di vedere nella dimensione autentica delle persone il valore da cui partire.
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