Un “cazzo ebreo”, ovvero sull’ eros amorfo, sulla memoria impossibile e sull’identità fratta.
È un grido il nuovo spettacolo in scena al Franco Parenti. “L’appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo” è firmato da Fabio Cherstich, uno dei giovani autori seguito dalla fucina teatrale di Andrée Ruth Shammah, presente alla prima milanese e quasi debordata sul palco per spingere l’intensa e brava Marta Pizzigallo – in scena con Riccardo Centimeri e Francesco Maisetti e gli autori, lo stesso Cherstich e Katharina Volckmer, la scrittrice dell’omonimo romanzo breve da cui è tratta la pièce, in scena fino al 16 ottobre in sala Acomea – a tornare per gli applausi una terza e una quarta volta.
È uno spettacolo scomodo “Un cazzo ebreo”, perché ci racconta che il Novecento non è passato e forse non passerà mai. Il Novecento, ovvero Auschwitz. Per cercare una soluzione postuma al problema del genocidio degli ebrei per mano dei nazisti che vada al di là del senso di colpa collettivo in cui la Germania si è trovata paralizzata (poteva essere altrimenti?) dopo la Seconda guerra mondiale, la giovane tedesca protagonista della pièce, decide di affrontare il problema dalle sue sconcertanti fantasie oniriche: scopare con Hitler, anzi di più… essere lo stesso Hitler. Sessualità dolorosamente contorta e memoria altrettanto dolorosa la portano a esplorazioni vaginali ardite (una banana) e poi a esperimenti sessuali borderline, tipo fare un pompino a uno sconosciuto nei cessi pubblici con cui iniziare una relazione impossibile.
E intanto pensare ossessivamente ad Auschwitz, al problema-Auschwitz. Con un impasto del genere non si può che fare una pasta che non sono i maccheroni della nonna vecchia ricetta. Qui c’è una giovane tedesca che non sa e non capisce nulla della propria sessualità, è in forte conflitto con la madre stordita dal proprio ottuso conformismo, ed è tormentata dall’eredità della Shoah sulla sua identità di giovane cittadina tedesca. Ce n’è abbastanza per il migliore degli psicanalisti ma le fantasie prendono il sopravvento e il delirio si concretizza. Come? Stiamo muti per non rovinare il finale. Che è comunque un grido di amore e una richiesta di perdono.
In questa richiesta di perdono, e nella comprensione del problema della sua identità sessuale sta la mossa decisiva del testo e dello spettacolo. Che è una performance, un divertissement noir e colorato in cui Chersich fa action painting e anche il designer. Bello e incasinato. Lei chiede perdono a K., il suo amante, e a sua madre, per non essere stata all’altezza dei suoi desideri.
Per crescere bisogna tradire, innanzitutto i propri genitori. Ma costa tanto, e capita che alcuni non ce la facciano. Ma neanche questo è chiaro nella nostra società spappolata se non che la richiesta di perdono è fondamentale, perché, ammettendo il debito che contraiamo alla nascita con i nostri creatori, padre e madre, tradendoli affermiamo con amore la necessità della nostra identità. Ma il perdono è al contempo riconoscimento del debito e richiesta di assolvimento. Quindi di riconoscimento anche da parte del tradito.
In questo movimento di crescita sui generis, l’eros amorfo della protagonista è il simbolo del vuoto della nostra epoca. Non ci sono modelli a cui ispirarsi se non negativi. La protagonista deve imparare a scoprire la propria sessualità esclusivamente da sola. Il corpo intero diventa un joystick, un device da cambiare e a cui innestare arti o membri per un impossibile ricomposizione dell’identità corporea e civile. Hitler col cazzo ebreo è un ossimoro della memoria che suona quindi come l'(im)possibile ricerca di un’uscita dal fardello degli orrori del Novecento. Prima sarebbe stato un atto portatore di dissociazione psichica, oggi l’identità è “fratta” ed è la nostra nuova quotidianità, ma la scoperta non è meno dolorosa.